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Sono un archeologo, laureato in Topografia di Roma antica, da sempre affascinato dalla Città Eterna.
In queste pagine proverò a raccontarvi Roma, attraverso l'archeologia, la storia e la tradizione.

La fontana di Trevi

La storia della fontana è strettamente collegata a quella della costruzione dell’acquedotto Vergine, che risale ai tempi dell’imperatore Augusto, quando Marco Vipsanio Agrippa fece arrivare l’acqua corrente fino al Pantheon ed alle sue terme.
Compromesso e ridotto nella portata dall’assedio dei Goti di Vitige nel 537, l’acquedotto rimase in uso per tutto il medioevo, con restauri attestati già nell’VIII secolo, poi ancora nel XII secolo in occasione dei quali si provvide anche ad allacciare il condotto ad altre fonti più vicine alla città, poste in una località allora chiamata “Trebium”, che potrebbe essere all’origine del nome.
Il condotto dell’Acqua Vergine è il più antico acquedotto di Roma tuttora funzionante, e l’unico che non ha mai smesso di fornire acqua alla città dall’epoca di Augusto.


Il punto terminale dell’Aqua Virgo si trovava sul lato orientale del Quirinale, nei pressi di un trivio (“Treio”, nella lingua dell’epoca: altra ipotesi, abbastanza accreditata, sull’origine del nome). Al centro dell’incrocio venne realizzata una fontana con tre bocche che riversavano acqua in tre distinte vasche affiancate; risale al 1410 la prima documentazione grafica della “Fontana del Treio” (o “di Trevi”).


Realizzata per volere di papa Clemente XII su progetto di Nicola Salvi, che cominciò a lavorarci nel 1733 ma non riuscì a vederla finita; la terminò Giuseppe Pannini, apportando anche qualche modifica al progetto e l’inaugurò solennemente Clemente XIII nel 1762, così come oggi la vediamo. L’effetto scenografico è suggestivo, con lo spumeggiare e il gorgogliare delle acque accresciuto dal ristretto spazio della piazza che la circonda, come la platea di un teatro.
La fontana copre tutto il fianco minore del Palazzo Poli, con una larghezza di 20 metri per 26 di altezza, con un arco di trionfo formato da due ordini di quattro colonne sormontate da un attico, a sua volta sovrastato dallo stemma di Clemente XII. Lo stemma, scolpito da Paolo Benaglia, è coronato da una balaustra con quattro statue che raffigurano le Quattro stagioni; sul fronte dell’architrave l’iscrizione di Clemente XII e nel fregio dell’architrave un’epigrafe in memoria di Benedetto XIV, con il quale erano proseguiti i lavori. Al centro la statua di Oceano su un carro a forma di enorme conchiglia trainato da due cavalli marini guidati da due tritoni; il tutto opera di Pietro Bracci. Le statue nelle nicchie laterali rappresentano l’Abbondanza (a sinistra) e la Salubrità, opera di Filippo Della Valle.
I bassorilievi sovrastanti rievocano la Leggenda della vergine che indica ai soldati assetati le sorgenti dell’acqua (Frontin. De aq. 1.10) e Agrippa che approva il progetto dell’Acquedotto Vergine, del quale in questo luogo fin dall’antichità era la fontana/mostra, consistente in un alto muraglione con tre vasche di raccolta.

Durante i lavori per la realizzazione della fontana, l’architetto Nicola Salvi veniva spesso importunato, con critiche e “consigli”, da un barbiere che aveva bottega sul lato destro della balaustrata circondante la costruenda fontana. Nel punto stesso da dove il barbiere poteva seguire il corso dei lavori, l’artista fece un giorno applicare uno strano e pesantissimo vaso di travertino, ancor oggi ben visibile, popolarmente detto asso di coppe per la sua somiglianza all’omonima carta da gioco (ma raffigurante, nell’intenzione ironica del Salvi, un recipiente per sapone da barba). Da allora al rompiscatole mancò la panoramica del cantiere, capì la lezione e non disturbò più.
Ancora oggi si può notare l’effetto voluto e lo scopo raggiunto dall’artista, stando nella bottega del successore del settecentesco barbitonsore.

E’ arcinota la leggenda secondo la quale chi viene temporaneamente a Roma e desidera tornarvi, deve necessariamente recarsi ad ammirare la bellissima e scenografica fontana, e poi, volgendole le spalle, deve gettare una monetina nell’ampia vasca. Il simbolico obolo, non si conosce per quale misteriosa ragione, garantisce un felice ritorno nella Capitale: l’origine del gesto potrebbe derivare dall’antica usanza di gettare nelle fonti sacre oboli o piccoli doni per propiziarsi la divinità locali.
Oltre alla tradizione della moneta, c’è il poetico uso di far bere, da una ragazza al proprio fidanzato che parte per il servizio militare o per lavoro, un bicchiere di acqua della fontana, rompendo quindi il bicchiere per significare che il ragazzo non potrà scordarsi più di lei.

Fonti:
Delli S., Le fontane di Roma
Pocino W., Le curiosità di Roma
Rendina C. (a cura di), Enciclopedia di Roma

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