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Sono un archeologo, laureato in Topografia di Roma antica, da sempre affascinato dalla Città Eterna.
In queste pagine proverò a raccontarvi Roma, attraverso l'archeologia, la storia e la tradizione.

L'Arco della Ciambella


Questo singolare toponimo deriva dal primo edificio termale a carattere pubblico a Roma, le Terme di Agrippa, inaugurato da Agrippa nel 12 a.C.; del complesso è giunta fino ai giorni nostri parte della grande sala rotonda, probabilmente il calidarium, tagliata nel 1542 con la costruzione di via dell’Arco della Ciambella: la sala, circolare con un diametro di 25 m e nota appunto come Arco della Ciambella almeno dal 1505, scomparve nel 1621 con i lavori di Gregorio XV per la sistemazione della zona e ora è conservata solo nella sua metà N per un’altezza di oltre 10 m.

Le Therme Agrippae coprivano un’area di 70 x 120 m circa, inquadrate tra via di Santa Chiara, via dei Cestari, largo e via di Torre Argentina, ed erano collegate all’Aqua Virgo, dalla quale venivano alimentate; alla sua morte Agrippa lasciò le terme in eredità al popolo romano, con un obbligo di mantenimento da parte di Augusto (Cass. Dio 54.29.4). Nell’80 d.C. le terme vennero quasi completamente distrutte da un incendio (Cass. Dio 66.24.2) ma ricostruite subito dopo (Mart. 3.20.15), restaurate quasi integralmente da Adriano (Hist. Aug. Hadr. 19.10; CIL VI, 9797) e successivamente da Massenzio, Costante e Costanzo II (CIL VI, 1165). In una stampa del Giovannoli del 1615, possiamo vedere come doveva apparire nel XVII secolo la via, che attraversava l’antico calidarium circolare ancora intatto.


Il complesso è noto nei Cataloghi Regionari come Thermas Agrippianas ed è incluso nel medievale rione Pigna, il quale deve il suo nome alla Pigna Bronzea, originariamente fontana all’interno delle Terme di Agrippa e adesso conservata nel cortile del Belvedere in Vaticano: il ricordo dell’antica pigna è tramandato anche nel nome di via della Pigna.

Fonti:
Steinby E. M. (a cura di), Lexicon Topographicum Urbis Romae

La fontana di Trevi

La storia della fontana è strettamente collegata a quella della costruzione dell’acquedotto Vergine, che risale ai tempi dell’imperatore Augusto, quando Marco Vipsanio Agrippa fece arrivare l’acqua corrente fino al Pantheon ed alle sue terme.
Compromesso e ridotto nella portata dall’assedio dei Goti di Vitige nel 537, l’acquedotto rimase in uso per tutto il medioevo, con restauri attestati già nell’VIII secolo, poi ancora nel XII secolo in occasione dei quali si provvide anche ad allacciare il condotto ad altre fonti più vicine alla città, poste in una località allora chiamata “Trebium”, che potrebbe essere all’origine del nome.
Il condotto dell’Acqua Vergine è il più antico acquedotto di Roma tuttora funzionante, e l’unico che non ha mai smesso di fornire acqua alla città dall’epoca di Augusto.


Il punto terminale dell’Aqua Virgo si trovava sul lato orientale del Quirinale, nei pressi di un trivio (“Treio”, nella lingua dell’epoca: altra ipotesi, abbastanza accreditata, sull’origine del nome). Al centro dell’incrocio venne realizzata una fontana con tre bocche che riversavano acqua in tre distinte vasche affiancate; risale al 1410 la prima documentazione grafica della “Fontana del Treio” (o “di Trevi”).


Realizzata per volere di papa Clemente XII su progetto di Nicola Salvi, che cominciò a lavorarci nel 1733 ma non riuscì a vederla finita; la terminò Giuseppe Pannini, apportando anche qualche modifica al progetto e l’inaugurò solennemente Clemente XIII nel 1762, così come oggi la vediamo. L’effetto scenografico è suggestivo, con lo spumeggiare e il gorgogliare delle acque accresciuto dal ristretto spazio della piazza che la circonda, come la platea di un teatro.
La fontana copre tutto il fianco minore del Palazzo Poli, con una larghezza di 20 metri per 26 di altezza, con un arco di trionfo formato da due ordini di quattro colonne sormontate da un attico, a sua volta sovrastato dallo stemma di Clemente XII. Lo stemma, scolpito da Paolo Benaglia, è coronato da una balaustra con quattro statue che raffigurano le Quattro stagioni; sul fronte dell’architrave l’iscrizione di Clemente XII e nel fregio dell’architrave un’epigrafe in memoria di Benedetto XIV, con il quale erano proseguiti i lavori. Al centro la statua di Oceano su un carro a forma di enorme conchiglia trainato da due cavalli marini guidati da due tritoni; il tutto opera di Pietro Bracci. Le statue nelle nicchie laterali rappresentano l’Abbondanza (a sinistra) e la Salubrità, opera di Filippo Della Valle.
I bassorilievi sovrastanti rievocano la Leggenda della vergine che indica ai soldati assetati le sorgenti dell’acqua (Frontin. De aq. 1.10) e Agrippa che approva il progetto dell’Acquedotto Vergine, del quale in questo luogo fin dall’antichità era la fontana/mostra, consistente in un alto muraglione con tre vasche di raccolta.

Durante i lavori per la realizzazione della fontana, l’architetto Nicola Salvi veniva spesso importunato, con critiche e “consigli”, da un barbiere che aveva bottega sul lato destro della balaustrata circondante la costruenda fontana. Nel punto stesso da dove il barbiere poteva seguire il corso dei lavori, l’artista fece un giorno applicare uno strano e pesantissimo vaso di travertino, ancor oggi ben visibile, popolarmente detto asso di coppe per la sua somiglianza all’omonima carta da gioco (ma raffigurante, nell’intenzione ironica del Salvi, un recipiente per sapone da barba). Da allora al rompiscatole mancò la panoramica del cantiere, capì la lezione e non disturbò più.
Ancora oggi si può notare l’effetto voluto e lo scopo raggiunto dall’artista, stando nella bottega del successore del settecentesco barbitonsore.

E’ arcinota la leggenda secondo la quale chi viene temporaneamente a Roma e desidera tornarvi, deve necessariamente recarsi ad ammirare la bellissima e scenografica fontana, e poi, volgendole le spalle, deve gettare una monetina nell’ampia vasca. Il simbolico obolo, non si conosce per quale misteriosa ragione, garantisce un felice ritorno nella Capitale: l’origine del gesto potrebbe derivare dall’antica usanza di gettare nelle fonti sacre oboli o piccoli doni per propiziarsi la divinità locali.
Oltre alla tradizione della moneta, c’è il poetico uso di far bere, da una ragazza al proprio fidanzato che parte per il servizio militare o per lavoro, un bicchiere di acqua della fontana, rompendo quindi il bicchiere per significare che il ragazzo non potrà scordarsi più di lei.

Fonti:
Delli S., Le fontane di Roma
Pocino W., Le curiosità di Roma
Rendina C. (a cura di), Enciclopedia di Roma

I colli di Roma

I colli di Roma, alcuni di essi ormai associati a cariche istituzionali o palazzi governativi, hanno quasi perso il valore originario di realtà geografiche ben distinte e concepite come parte viva della città.
Gli antichi romani furono molto pratici nel dare i nomi ai luoghi: il nome trasmetteva direttamente la memoria o la funzione di una determinata zona.

Quirinale: il collis Quirinalis prende il nome dal tempio di Quirinus (Varro ling. 5.51), una divinità italica di origine probabilmente sabina ma d’incerta etimologia, introdotta dalla città di Cures per opera di Tito Tazio e in seguito assimilata dai Latini a Romolo e a Marte; studi e indagini confermano che il tempio si trovava nell’area del palazzo del Quirinale. 

Viminale: il nome del collis Viminalis trae origine dal viminum silva o salix viminalis, i cespugli di salice che in origine coprivano le pendici del colle (Varro ling. 5.51). 

Esquilino: l’Esquilino è costituito dalle alture del Cispio, dell’Oppio e del Fagutale; l’origine dei nomi dei colli è varia e controversa:
- si afferma che gli exquilini erano gli abitanti della fascia suburbana, per distinguerli dagli inquilini che risiedevano nell’Urbe (Varro ling. 5.25);- l’ipotesi di dendronimo derivato da aesculi (eschi), arbusti di leccio cari a Giove, è confermata da altre analogie nel territorio romano (Viminalis, Querquetulanus, Facutalis, Cispius…);- una terza ipotesi, è che derivi da excubiae, le guardie che venivano mandate da Romolo per difendersi dalle insidie dei Sabini di Tito Tazio (Varro ling. 5.49).- Cispio (Varro ling. 5.50) potrebbe derivare dal nome di Cispius Anagninus, personaggio dei tempi di Servio Tullio, ma molto più probabilmente potrebbe derivare dal fitonimo cespes (erba, pascolo), come molti altri toponimi di radice botanica originati nella Roma arcaica.- Oppio potrebbe derivare da Opiter Oppius, cittadino di Tusculum, incaricato di proteggere Roma mentre Tullo Ostilio assediava Veio.- Il Fagutale, collis Facutalis, propaggine S dell’Oppio nell’area di San Pietro in Vincoli, è così denominato da un boschetto di faggi che verosimilmente caratterizzava la sommità dell’altura (Varro ling. 5.49, 5.152). 
 
Celio: in principio il nome doveva essere Querquetulanus mons per la ricchezza di querce, mentre l’origine del nome Caelius viene concordemente fatta risalire all’etrusco Celio Vibenna (Caele). 
 
Palatino: culla della civiltà romana, il colle in età imperiale divenne velocemente un unico grande complesso privato dell’imperatore, al punto che il nome stesso del colle (Palatium) finì col diventare sinonimo di “palazzo”. L’origine del nome viene spiegata con svariate etimologie, ma la tradizione più accreditata può essere quella che collega il nome Palatium con quello di Pallantion, città della Grecia da cui Evandro sarebbe partito alla volta dell’Italia: secondo una tradizione consolidata (Virg. Aen. 8.51-54), agli Aborigeni, i più antichi abitanti del colle, avrebbero fatto seguito i Greci dall’Arcadia sotto la guida di Evandro, una sessantina di anni prima della guerra di Troia, fondando la città di Pallanteo. Su questa linea si susseguono altre etimologie, attraverso i nomi di Pallante (proavus di Evandro), Pallantia e/o Pallante (figli di Evandro), o Pallante (figlio di Eracle e nipote di Evandro) ucciso da Turno e sepolto sul colle.
 
 Campidoglio: le denominazioni antiche di Capitolium e di mons Capitolinus deriverebbero, secondo tradizione, da un teschio (caput) di un guerriero (Liv 1.55.5-6) ritrovato al tempo dei Tarquini durante gli scavi per le fondazioni del tempio di Giove (Dion. Hal. 4.59.2 ss.): «Caput humanum integra facie aperientibus fundamenta templi dicitur apparisse» (Varro ling. 5.41); il guerriero si sarebbe chiamato Olus, e quindi da caput Oli sarebbe derivato Capitolium; il fatto fu poi interpretato dai vates etruschi e romani come presagio della futura grandezza di Roma (Liv. 5.54.7).

Aventino: ci sono diverse ipotesi per l’origine del suo nome, già esposte e commentate da Varrone (ling. 5.43); esso potrebbe:
- far riferimento agli uccelli (aves) che Remo avrebbe visto volare nella contesa con il gemello Romolo (Liv. 1.6.4; Ov. Fast. 4.811-818);
- riferirsi ad Aventinus, un mitico re di Alba Longa che sarebbe stato colpito mortalmente da un fulmine sul colle e lì sepolto;
- derivare da adventu hominum (arrivo di gente), dal fatto che ci si radunava su questo colle per venerare Diana, culto comune a tutte le popolazioni latine;
- provenire da ab advectu, perché separato in origine da paludi.

Fonti:
Piccaluga G., Terminus: i segni di confine nella religione romana
Platner S. B., Ashby T., A Topographical Dictionary of Ancient Rome 
Valentini R., Zucchetti G., Codice topografico di Roma

Ponte Quattro Capi

La denominazione Quattro Capi venne data al Pons Fabricius per due erme a quattro teste, due barbute e due imberbi, forse rappresentanti Giano, collocate all’inizio del ponte. Il Pons Fabricius, detto anche Pons Fabrici o Pons Iudaeorum per la sua vicinanza al Ghetto ebraico, collega tuttora l’isola Tiberina alla sponda sinistra del Tevere; venne edificato da L. Fabricius, curator viarum nel 62 a.C. (Cass. Dio 37.45.3) e restaurato nel 21 a.C. da Q. Lepidus e M. Lollius dopo la piena del 23 (Cass. Dio 53.33.5). Le iscrizioni su entrambi le facciate delle due arcate, perfettamente visibili, ci confermano Lucio Fabricio come costruttore del ponte: 
L(ucius) Fabricius C. f. cur(ator) viar(um) faciundum coeravit 
nonché collaudatore: 
Idemque probavit.
Una terza iscrizione attesta la nuova probatio del monumento nel 21 a.C.: 
Q. Lepidus M’. f. M. Lollius M. f. Cos. ex S(enato) C(onsulto) probaverunt.

Tecnicamente le erme avrebbero dovuto sorreggere un parapetto o una balaustra, forse in bronzo, ma probabilmente vennero aggiunte nel XVI secolo durante un restauro. Una tradizione però racconta un’origine diversa: quando Sisto V decise di far restaurare il ponte, assegnò il compito a quattro architetti, i quali durante i lavori furono perennemente in contrasto per futili motivi, dando scandalo; finiti i lavori, il papa face giustiziare i quattro davanti al ponte, collocandovi le sculture con i loro quattro volti a monito dell’episodio. Ciascuna delle quattro teste da le spalle alle altre tre: coloro che furono in discordia in vita, vennero condannati a condividere lo stesso spazio per l’eternità.

La tradizione è riportata da Giggi Zanazzo, poeta romanesco, antropologo e studioso degli usi e costumi del popolo romano:
Come saperete tutti, Sisto Quinto, che regnò ccinque anni, fece fa’ ccinque strade, cinque funtane, cinque guje, cinque ponti, e llassò ccinque mijoni drento Castello. Uno de li ponti che ffece arifa’ fu quello chiamato ponte Quattro capi. E lo volete sape’ ssì pperché sse chiama accusì?
Perché ddice ch’er papa fece rifa’ quer ponte che stava pe’ ccasca’, da quattro bbravi architetti, che, ttramente lo staveno a llavora’, vìnnero a quistione tra dde loro ar punto tale, che cciamancò un tòmbolo d’un pidocchio che nun ce scappasse l’ammazzato.
Saputa ‘sta cosa da Sisto Quinto, che, ccome saperete, ce n’aveva poche spicce, fece agguanta’ ttutt’e quattro l’architetti e ddetto un fatto te jè fece taja’ la testa sur medemo ponte, e jè le fece aspone llì. Poi, sempre per ordine der papa, quele quattro teste furno fatte fa’ dde pietra, e ffurno mésse accusì scorpite, da capo ar ponte indove incora ce stanno e cche j’hanno dato er nome de ponte Quattro Capi.

Ultimi studi hanno dato nuove ipotesi per la provenienza delle erme: innanzitutto dovevano essere quattro, di cui due visibili sulle balaustre del ponte, una inserita nel monumento a Giuseppe Gioacchino Belli in piazza Belli, a Trastevere, e un’altra, in pessimo stato di conservazione, ritrovata in un giardino del Museo Nazionale Romano. Le quattro erme, di stesse dimensioni e tutte con delle lunghe scanalature verticali su due lati contigui, dovevano originariamente delimitare un’area sacra quadrangolare, probabilmente dedicata al culto di Giano, e sorreggere delle lastre marmoree o una cancellata. Un tempio di Giano sembra individuabile nelle vicinanze del Teatro di Marcello (Liv. 1.19.2; Serv. Aen. 7.607), esattamente sotto la chiesa di San Gregorio della Divina Pietà; un ulteriore indizio per il posizionamento dell’aedes potrebbe essere il nome medievale della chiesa, Sancti Gregorii de Quattro Capora o ad Quatuor Capita, ricordato già dal XV secolo, prima quindi del restauro del vicino Pons Fabricius e della nuova denominazione, confermando l’ipotesi della presenza delle quattro erme nelle prossimità del ponte. Le stesse potrebbero essere databili all’età tiberiana.

Fonti:
Zanazzo G., Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma
De' Spagnolis M., “Isola Tiberina, sulle erme quadrifronti del pons Fabricius”, in Boll. Arch., 1993, pp. 95-103
Hülsen C., Chiese di Roma nel Medio Evo

Il nome di Roma

Roma. La città eterna. L’Urbe.
La nostra città, nella sua trimillenaria storia, è stata rispettata, invidiata, lodata e denigrata, onorata e razziata; un’alternanza di atteggiamenti che hanno dato la possibilità e la capacità di studiare e conoscere Roma in innumerevoli forme e modi. Tradizioni, racconti, fonti storiche e memoria collettiva ci hanno permesso di tramandare la storia della città.
Nonostante ciò, una delle più grandi questioni approfondite dagli studiosi è quella del nome di Roma: sulla bocca di tutti i popoli, non è tuttora chiara l’etimologia della città più famosa del mondo.
Roma.


Quando gli storici antichi cominciarono ad interrogarsi sull’origine e sul significato del nome di Roma, i fili della memoria storica erano già recisi e le interpretazioni si accumularono contraddicendosi.
Plutarco, lo storico greco vissuto tra il I e il II secolo d.C., è forse l’autore antico che più ci fornisce informazioni, o per meglio dire ipotesi, sull’etimologia del nome Roma, e nelle sue Vite Parallele ci elenca una serie di elementi che potrebbero essere alla radice del termine, in parallelo con alcune informazioni tramandateci da Dionigi d’Alicarnasso:
-  la fondazione di Roma sarebbe dovuta al popolo dei Pelasgi, che una volta giunti sulle coste del Lazio avrebbero fondato una città il cui nome ricordasse la loro prestanza nelle armi: rhome (Plut. Rom. 1.1);
-  guidati da Enea, i profughi troiani arrivarono sulle coste del Lazio, dove fondarono una città presso il colle Pallantion a cui diedero il nome di una delle loro donne, la quale aveva convinto le compagne a bruciare le navi per smettere di vagabondare: il suo nome era Rhome (Plut. Rom. 1.2-3; Dion. Hal. 1.72.2);
-  una donna, figlia di Italo re degli Enotri e Leucaria, oppure figlia di Telefo e nipote di Eracle, la quale sposò Enea o suo figlio Ascanio: il suo nome era Rome (Plut. Rom. 2.1);
-  Roma venne fondata dal figlio di Odisseo e di Circe: Romanus (Plut. Rom. 2.1);
-  Roma venne fondata dal figlio del troiano Emazione, inviato dall’eroe greco Diomede: il suo nome era Romo (Plut. Rom. 2.1);
-  gli Etruschi, giunti in Italia dalla Tessaglia attraverso la Lidia, furono respinti dal tiranno dei Latini: Romide (Plut. Rom. 2.1);
-  Romos, Romylos e Telegonos fondarono una città che richiamava il nome della loro madre, profuga troiana giunta nel Lazio e sposatasi con il re Latino, figlio di Telemaco: il suo nome era Rome (Plut. Rom. 2.1; Dion. Hal. 1.72.5).
In tutte le versioni appare quindi chiara la stessa radice, collegabile all’eponimo Rome, derivando l’etimologia dalla parola greca ρώμη (ròme), il cui significato è “forza”. L’ipotesi può essere avvalorata da un altro passo di Plutarco: sulle rive di un’insenatura del Tevere sorgeva un fico selvatico chiamato Ruminalis, dal nome di Romolo, dal ruminare degli animali o perché i gemelli vi furono allattati; gli antichi latini chiamavano infatti ruma la mammella, fonte simbolica di nutrimento e vita, quindi di “forza” (Plut. Rom. 4.1; Serv. Aen. 8.90).


Fonti più tarde identificano la stessa Rome come figlia di Ascanio e nipote di Enea: “…Ascanio natam Aeneae neptem appellationis istius causam fuisse…” (C. Iulii Solini, Collectanea Rerum Mirabilium 1.4).


Servio (Aen. 8.63) ricollega il termine Roma a Rumon, che dice essere uno dei più antichi nomi del Tevere, avente radice analoga a quella del verbo greco ῥέω (rèo) e del verbo latino ruo, che significano “scorrere, muovere”.
Interessante anche il collegamento con l’ipotesi di Plutarco, sul concetto della “forza”: prima dell’arrivo di Evandro, la città fu chiamata Valentia (“forza, vigore”) e successivamente Roma con il nome greco (Serv. Aen. 8.63: “…Romam ante adventum Evandri diu Valentiam vocitatam, sed post graeco nomine Romen vocitatam…”). 


Ioannes Lydus Laurentius, scrittore bizantino vissuto nel V secolo, ci tramanda che i nomi di Roma erano addirittura tre (De mens. 4.50):
-  uno civile e profano, reso pubblico: Roma;
-  uno sacro: Flora o Florens, la Fiorente, usato solo nelle cerimonie religiose;
-  uno arcano e segreto: Amor, cioè la parola Roma letta da destra verso sinistra; il nome segreto non poteva essere pronunciato o scritto, ma trasmesso oralmente da una ristretta cerchia di iniziati: potrebbe essere affascinante non escludere completamente l’ipotesi di una trasmissione orale sopravvissuta fino ai giorni nostri.
L’autore fa anche riferimento all’Amaryllida urbem di Virgilio (Ecl. 1.5), forse un’altra delle misteriose denominazioni di Roma.
La lettura del nome di Roma da destra a sinistra era conosciuta però fin dall’antichità, come dimostra un graffito trovato sulla parete di una casa di Pompei e nella caserma dei Vigili di Ostia, databile all’età adrianea: Roma olim milo Amor.


Giovanni Pascoli, nel suo Inno a Roma centinaia di anni dopo, sembra tramandare questa tradizione dei tre nomi: “O, ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi, dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo che si riveli, poi ch’è il tempo sacro […] Amor! Oh! L’invincibile in battaglia! Oh! Tu che alberghi nei tuguri agresti! […] Riguarda quei villaggi di capanne, quelle capanne squallide di stoppia, o Flora! […]”


Fonti:
Plutarco, Vite Parallele
Dionigi D'Alicarnasso, Antichità Romane

L'inizio

L'espressione Ab Urbe condita (AUC oppure a. U. c.; letteralmente, "dalla fondazione della Città") fa riferimento ad un sistema di calcolo degli anni che prese piede tra i Romani (in ambienti dotti ma non nell'uso popolare) a partire dalla fine del periodo repubblicano: gli anni venivano computati a partire dal 753 a.C., la data che l'erudito Marco Terenzio Varrone aveva stabilito ai tempi di Giulio Cesare per la fondazione di Roma, l'Urbe, "la città" per eccellenza. La cosiddetta "data varroniana" era stata ricavata fissando al 509 a.C. il primo anno della Repubblica e attribuendo 35 anni di regno a ciascuno dei sette re di Roma. Precedentemente, il metodo in uso tra i Romani per ordinare gli eventi della storia era quello adottato agli inizi dell'età repubblicana: si indicavano gli anni a partire dai nomi dei due consoli in carica (detti perciò eponimi).

Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Ab_Urbe_condita